giovedì 3 gennaio 2008

Recensione PLAY TIME

Recensione play time




Regia di Jacques Tati con Jacqueline Lecomte, Rita Maiden, Barbara Dennek, Jacques Tati

Recensione a cura di amterme63

Il cinema è un'arte nata soprattutto come intrattenimento ed impresa commerciale, e questo dovrebbe essere sempre presente a chi ha intenzione di creare opere filmate originali ed innovative. La natura stessa del cinema obbliga chi vuole essere anticonvenzionale a dosare bene le proprie invenzioni, per non sconvolgere troppo lo spettatore e creare in lui una reazione di rifiuto; soprattutto occorre calcolare bene i rischi a cui si va incontro, senza sbilanciarsi in opere faraoniche o spese eccessive. A nulla vale creare dispendiosi capolavori artistici se poi le sale restano tristemente vuote.
A questo disgraziato destino è andato incontro nel 1967 "Playtime", l'opera che avrebbe dovuto rappresentare il monumento e l'apoteosi della comicità minimalista del francese Jacques Tati e che invece ne ha decretato la sfortunata ed immeritata eclissi.

Fino a quel momento Tati si era rivelato uno dei più originali e divertenti comici del dopoguerra; la sua arte si basava prevalentemente sull'osservazione dei piccoli fatti e degli strani personaggi della vita quotidiana, a cui in genere non facciamo caso.
Frugando quindi fra le pieghe del reale, Tati riusciva a far sorridere delle sue mille stranezze, senza però rinunciare ad evidenziare i tanti condizionamenti sociali che finiscono per limitare la libertà e l'umanità del singolo individuo. Il risultato è ottenuto grazie all'intervento di un personaggio fuori dal comune, un po' disadattato, che con le sue stramberie riesce a fare contrasto con la "normalità" ed a farcela vedere come in controluce, in maniera distaccata. Nel 1949 Tati interpreta un postino ingenuo e bonaccione che ci fa sorridere con le sue piccole avventure paesane in "Giorno di festa", dandoci un quadro ironico e divertito della campagna francese. Poi piano piano nei suoi film entra in scena il benessere e la modernità industriale e il testimone di questa trasformazione epocale diventa "Monsieur Hulot": uno spilungone dinoccolato e taciturno, sempre svagato e fuori luogo, con un particolare talento nel perturbare l'"ordine" apparente, volendo essere semplicemente "servizievole". Eccolo allora a rovinare il tran- tran di alcuni abitudinari villeggianti ne "Le vacanze di Monsieur Hulot" (1953), per poi offrirci una feroce satira della smania del moderno in "Mon Oncle" (1958), probabilmente il film più riuscito di Tati.

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