Recensione la tigre e la neve
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Recensione a cura di Simone Bracci
La poesia spesso assume i canoni di un racconto a divulgazione etico-morale, ma non sempre è così, non sempre ha una finalità costruttiva. Perché la poesia, tradotta in fiction, è utile al narratore anche solo per raccontare una storia, una storia d'amore che si eleva dallo sfondo di un conflitto militare, che è sinonimo della "non-pace" dell'Iraq dei giorni nostri. "La tigre e la neve", che nel film diventa l'immagine dell'infatuazione, dell'amore per la vita e della vita stessa donata per amore, è proprio questa rappresentazione, una fiaba modernissima sull'assurdità di quel luogo comune che è la guerra.
Il poeta Attilio ("l'istrione" Benigni) affronta il suo viaggio surreale, come spesso gli è accaduto in passato, avvolto da un'aura di candore che gli permette di attraversare Baghdad praticamente illeso e quasi inconsapevole, proprio come sul tappeto volante delle Mille e una notte, insieme al fidato amico e collega Fuhad (un convincente Jean Reno). Egli intraprende il suo cammino "isterico" e grottescamente allucinante da Roma alla martoriata capitale irachena per salvare l'amata Vittoria (una Nicoletta Braschi che ben figurerebbe nel museo delle cere di Madame Tussaud), biografa di Fuhad e rimasta gravemente ferita nel crollo di un palazzo bombardato da non si sa bene chi.
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