venerdì 28 aprile 2006

Recensione LA FAMIGLIA OMICIDI

Recensione la famiglia omicidi




Regia di Niall Johnson con Rowan Atkinson, Kristin Scott Thomas, Maggie Smith, Patrick Swayze, Emilia Fox, Liz Smith, Tamsin Egerton, James Booth

Recensione a cura di peucezia

Il ritorno della "black comedy" in puro british style porta la firma del regista Niall Johnson e un cast di tutto rispetto.
Il titolo italiano è ispirato a "La Signora Omicidi" celebre film con Peter Sellers mentre il titolo originale "Keeping Mum" cioè "acqua in bocca" richiama in realtà un'altra pellicola d'oltremanica "Serial Mom" (in italiano "La Signora Ammazzatutti"). Fonte d'ispirazione, tra le altre pellicole del genere, un classico della commedia nera "Arsenico e vecchi merletti" con la regia di Frank Capra e con tra gli interpreti un all'epoca giovanissimo Cary Grant.

Dopo un esordio della storia alquanto misterioso, la prima parte del film non lascia molto all'immaginazione: la famiglia Goodfellow vive noiosamente in una cittadina di provincia anche se ha delle abitudini quanto meno originali in lieve contrasto con il cognome portato che in italiano tradotto al plurale vuol dire all'incirca "brava gente". Si esaminano alcuni vizi e problematiche comuni (il fenomeno del bullismo o l'esagerata "esuberanza" della figlia maggiore) ma queste tematiche sono trattate con levità e sempre un po' fuori le righe non rinunciando ai soliti stereotipi. Patrick Swayze infatti incarna il prototipo del playboy in disarmo americano sbruffone e decisamente grezzo e non manca il personaggio della vecchietta terribile importuna e un po' fuori di testa.

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Recensione NASCITA DI UNA NAZIONE

Recensione nascita di una nazione




Regia di David Wark Griffith con Lillian Gish, Henry B.Walthall, Mae Marsh, Miriam Cooper, Mary Alden

Recensione a cura di Giordano Biagio

Tratto dai romanzi The Clansman e The Leopard's Spots di Thomas Dixon (Pastore di tradizione Battista) questo film di Griffith è una tappa importante nella storia del cinema.
Di rilievo nell'opera le numerose invenzioni di scrittura che hanno creato le condizioni per uno sviluppo della teoria della sintassi cinematografica. Film famoso anche per l'influenza mediatica che ha avuto sul sociale, cosa che ha portato alcuni studiosi ad importanti riflessioni teoriche sul rapporto cinema-spettatori.

Con questa opera Griffith inaugura le principali tecniche di espressione linguistica: quelle funzionali al racconto. Lo fa con grandi risultati tecnici, tali da porre ancora oggi il suo linguaggio iconico alla base dei film- racconto.
Tra queste invenzioni spiccano per importanza: la pratica del montaggio in senso narrativo, che si avvale di numerosissime (1554) e brevi inquadrature (vedi come esempio di paragone anche La corazzata Potemkin di Ejzenstein), il montaggio parallelo e il montaggio alternato. Da ricordare anche l'alternanza dei primi piani e piani lunghi, nonché il famoso "last minute rescue" (il "salvataggio all'ultimo minuto" che riguarda il montaggio alternato delle scene tra chi è soccorso e il soccorritore). Infine il "Rembrant Lightning" tecnica di illuminazione d'impronta grezzamente pittorica.
Scriverà Ejzenstein: "Griffith è Dio padre. Ha tutto creato, tutto inventato". "Nascita di una nazione" (The birth of a Nation, USA 1915) è considerato tra i film fondativi della filmografia degli Stati Uniti. E' stato girato in sole 15 settimane di cui sei per il montaggio ed è costato la cifra di 100.000 dollari (grande esborso per l'epoca). Il film ha incassato 15 milioni di dollari.

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giovedì 27 aprile 2006

Recensione IL REGISTA DI MATRIMONI

Recensione il regista di matrimoni




Regia di Marco Bellocchio con Sergio Castellitto, Donatella Finocchiaro, Sami Frey, Gianni Cavina, Maurizio Donadoni

Recensione a cura di maremare

Dopo l'irritante e deludente "Il sogno della farfalla", un Bellocchio più maturo, più 'soggetto', si riaffaccia al cinema-psicoanalitico tout court, al cinema come apertura semantica che rimanda continuamente il senso e l'interpretazione ad Altro.
Il pretesto è il film che Franco Elica (un Castellitto direttamente uscito dall'"Ora di religione") 'non ha da fare': i "Promessi Sposi" riletti in prospettiva rovesciata. Lucia è costretta dal padre a sposare il farlocco (Balocco verrebbe da dire) Renzo, ma 'desidera' l'Innominato.

Innanzitutto una premessa: Marco Bellocchio prima di essere stato figlio degenere di Fagioli, è stato figlio della Novelle Vague. Questo modo di fare cinema, nella cura maniacale dell'immagine, nella scelta ossessiva delle facce, dello sguardo, è inscritto nel suo Dna, nella sua Elica, appunto. Rappresenta la sua 'dote' migliore.
Il cinema degli anni Sessanta sancì una profonda frattura nel rapporto tra cinema e psicanalisi. Non si cercava più di riprodurre logicamente i simboli di un sogno, ma si cercava di riprodurre la logica del sogno, contrapposta alla razionalità della veglia. Questa opzione cinematografica alla fine si è, naturalmente, inscritta nelle regole implicite della settima arte. Ha tradotto l'onirismo in una narrazione, anzi in una logica rappresentativa.
Bellocchio, cineasta sperimentatore degli anni Sessanta e Settanta, nell'era 'fagioliana' ha vissuto lo scacco di una possibile totale liberazione dello Sguardo da ogni opzione linguistica, per poi tornare, volutamente, all'interno di una drammaturgia coerente, rendendola ambivalente.
Questa mediazione lo ha portato a realizzare i suoi film migliori: "La Balia", "Il Principe di Homburg", "L'ora di Religione", "Buongiorno Notte". Sono film situati in una zona di confine. Vi è una trama ufficiale, una narrazione di eventi concatenati che si svolge in maniera abbastanza lineare. A questa trama ufficiale, però, si abbina una sorta di dimensione allucinatoria vissuta dal protagonista. Questo meccanismo combinatorio realtà-allucinazione serve a Bellocchio per confondere non tanto i piani, ma i confini tra i piani. Così il regno dell'Altro non tracima nella realtà, sconvolgendola, ma interviene come correttore di rotta, suggerisce piste interpretative inaspettate.
Non abbiamo. insomma, una rivoluzionaria immaginazione al potere, ma un'immaginazione contrapposta al potere.
Nello splendido "L'Ora di Religione" vi era l'artista Ernesto Picciafuoco che, dopo aver tentato di sfidare apertamente il convitato di pietra Conte Bulla, distruggeva 'virtualmente' l'Altare della Patria, simbolo di un potere invadente e stupido nella sua retorica.
In "Buongiorno Notte" vi era una brigatista, rinchiusa nel gioco della Storia che, almeno nel sogno, prospettava a sé stessa un finale differente da quello che la storia stessa poi ci ha consegnato.
Moro liberato. Libero di passeggiare per le vie di Roma.

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Recensione 40 ANNI VERGINE

Recensione 40 anni vergine




Regia di Judd Apatow con Steve Carell, Catherine Keener, Paul Rudd, Romany Malco, Seth Rogen, Elizabeth Banks, Leslie Mann

Recensione a cura di Cristina3455

Andy Stitzer (Steve Carell) lavora come magazziniere in un grosso negozio di Hi-Fi, e conduce una vita semplice e tranquilla, senza particolari ambizioni. Ha già 40 anni, ma, nello spirito, e molto diverso dagli altri uomini della sua età, ed in molte situazioni ancora vive e si comporta come un adolescente...
Fanatico collezionista di "supereroi" in plastica fin da ragazzino, ha una casa che sembra un museo, tanto ne è stracolma... Andy conserva i propri giocattoli con estrema cura, dedicandogli amorevoli attenzioni... non gli interessano le donne... non gli interessano le macchine e, tra l'altro, non ha mai neanche preso la patente. Simpatico e sportivo, fa ginnastica in casa e va a lavorare in bicicletta.
Andy non ha mai avuto rapporti sessuali in vita sua, e dopo qualche catastrofica esperienza in età giovanile, ha deciso di lasciar perdere per sempre non soltanto le ragazze, ma qualsiasi altra succedanea forma di espressione della propria sessualità.
Quando, durante una serata con alcuni colleghi, lascia trapelare senza volerlo il fatto di essere ancora vergine (provando, ovviamente, un insostenibile senso di vergogna...), la sua vita cambia improvvisamente, trasformandosi in un caos di situazioni imbarazzanti ed eventi tragicomici, che porteranno Andy a crescere molto velocemente e a superare la sua condizione di "stallo" nella monotonia di una vita da eterno ragazzino.
I tre colleghi di Andy, David (Paul Rudd), Jay (Romany Malco) a Call (Seth Rogen), giovani e stravaganti, decidono di dedicarsi a lui, forzandolo con tutti i possibili ed inverosimili consigli nonché coinvolgendolo nelle situazioni più esilaranti, a liberarsi del "peso" della verginità e a diventare finalmente, a tutti gli effetti, un "membro adulto" della comunità maschile così com'è universalmente intesa secondo i più comuni stereotipi.
David, Jay e Call divengono così, praticamente all'improvviso, dopo anni di lavoro insieme nella quasi più completa indifferenza, i suoi migliori amici, e prima ancora di trovare una fidanzata, la tranquilla e solitaria vita privata del "40 anni vergine" viene rivoluzionata dalla presenza dei tre nuovi personaggi che, con caratteristiche è peculiarità diverse, non sono comunque meno bizzarri di lui... Anche gli altri colleghi, nel frattempo, cominciano ad interessarsi, più o meno amorevolmente, al "caso" di Andy, che diviene così, in poco tempo, il centro dell'attenzione di tutto il personale del negozio. Paula, il suo capo, si invaghisce di lui e gli fa fare carriera, mentre i suoi nuovi amici lo coinvolgono invece in serate chiassose, feste, situazioni da farsa ed incontri di speed dating...
Andy è timido, impacciato, estremamente indeciso ma con un cuore generoso e pieno di buoni sentimenti. Quando incontra Trish (Catherine Keener), una bella divorziata con già tre figli e un nipotino, ha paura di farsi avanti e di fare brutta figura...ma l'amore, il vero amore, che si è fatto aspettare per così tanti anni, è finalmente arrivato anche per lui...e la storia, ovviamente, si corona con un romantico lieto fine.

"The 40 Year Old Vergin", già a suo tempo indicato dalla critica statunitense come il degno e forse miglior successore del genere comico-commedia-demenziale rappresentato dai precedenti "Tutti pazzi per Mary" (Something about Mary) e "American Pie", non è sicuramente un capolavoro di comicità raffinata, e per chi ancora ricorda le brillanti commedie holliwoodiane degli anni '50 e '60, di cui questi film sono in qualche modo gli eredi, la differenza stilistica, determinata ovviamente anche da uno iato generazionale di quasi mezzo secolo, è sin dall'inizio ben più che manifesta.
La volgarità è di casa, così come il cattivo gusto, anche se, è doveroso ammetterlo, non fanno comunque da padroni e lasciano molto spazio a momenti di comicità vera, che sono parecchi, ben azzeccati e originali, tali da risollevare considerevolmente la qualità artistica del film.

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mercoledì 26 aprile 2006

Recensione INCONTRI D'AMORE

Recensione incontri d'amore




Regia di Arnaud Larrieu, Jean-Marie Larrieu con Sabine Azema, Daniel Auteuil, Amira Casar, Sergi Lopez

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Che si voglia o meno ammetterlo, la sessualità gioca una parte fondamentale nella nostra esistenza. E' quasi banale dirlo, ma il fatto che la vita stessa passi... da quelle parti... con il suo processo di riproduzione, basterebbe a fugare ogni dubbio in proposito.
Nel momento in cui scrivo, ad esempio, è primavera! E nessuno, credo, negherebbe di sentire nell'aria un'atmosfera un po' diversa, per certi versi inquietante, intrisa di messaggi velati e stimolanti... di un certo quid... che non starei qui a definire... diciamo "d'amore". Sul quale genere di richiamo, poi, punta decisamente il film recensito: prima che psicologico o spirituale, sensoriale, olfattivo, naturale, terreno, animale e "fisiologico".
Un insieme di requisiti che per motivi diversi la nostra morale ha sempre rintuzzato e mortificato con una cultura famigliare e religiosa assolutamente penalizzante del nostro diritto giusnaturalistico al piacere dell'esistenza e alla realizzazione individuale.

Non stiamo qui ad analizzare le ragioni di tanto "snaturamento", ma è un fatto che, almeno fino a Freud e all'avvento della psicologia, la legittima sessualità degli individui fu sempre repressa dal venefico influsso di una morale religiosa minacciosa e crudele, incentrata proditoriamente sul senso di colpa. Per questo non dovremmo mai stancarci di ringraziare gli psicologi per avercene liberato, se pur con faticosi processi di analisi, restituendoci ad una vita più naturale, nel segno di un sano edonismo. Sbaglieremmo a dire, però, che la restrittività nei costumi riguardasse tutti.
Al contrario le classi superiori e gli ambienti di potere si considerarono tendenzialmente esenti, come testimoniano le storie di principi e cortigiani, ivi comprese gli ambienti più elevati della Chiesa; per riaffermare, infine, che principalmente ai poveri erano interdetti felicità e benessere, appannaggio esclusivo dei ceti privilegiati.
Dunque l'ipotesi di estendere il diritto all'edonismo a fasce più ampie di individui, dai ceti aristocratici a quelli medio-borghesi, impreziosendo la loro vita con stimoli e motivi finora riservati a pochi, va letto secondo me, in senso progressivo. Propriamente nel segno di un giusto e doveroso evoluzionismo, come predicato da Darwin in poi: le speci non solo si riproducono, ma evolvono con una selezione naturale che ne garantisce la sopravvivenza attraverso continue modificazioni.
Ad esempio, per tornare in tema, la coppia monogama mette a rischio la perpetrazione della specie impiegando gli stessi geni, diversamente dalla femmina poligama che mescolando il suo con altri sangui, evita il rischio statistico di ripetere errori genetici. Al contrario, in barba a Darwin e alla biologia, le società del passato hanno eretto un baluardo autodifensivo contro la poligamia, servendosi delle religioni e di strumenti molto particolari come quello della famiglia monogamica e della sua principale sovrastruttura, l'amore romantico.
Il quale poi, agognato e idolatrato in eccesso, in particolare dalle donne, ha fortemente contribuito a snaturare il rapporto tra individuo e natura, inibendo istinti primordiali e scatenando una catena inarrestabile di nevrosi, sofferenze esistenziali e sensi di alienazione. Tali per cui, dopo una vita insieme, una coppia viene abitualmente a trovarsi nella situazione dei protagonisti, spenta, intristita, senza alcuna libido.

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lunedì 24 aprile 2006

Recensione SESSO E FILOSOFIA

Recensione sesso e filosofia




Regia di Mohsen Makhmalbaf con Daler Nazarov, Mariam Gaibova, Farzana Beknazarov, Tahmineh Ebrahimova, Malohat Abdulloeva

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Diciamo subito che il titolo trae in inganno richiamando una componente erotico-fisica che nel film manca quasi completamente; sostituita, invece, da una credibile tensione emotivo-spirituale, che si avverte fortemente tra il protagonista e le quattro amanti, anche in virtù del suo commento poetico fuori campo. Solo in rare situazioni intellettualismo e metafore puramente immaginifiche lasciano il campo ad un effettivo erotismo, memorabile per la rara bellezza e la fortissima presa: quando, per la prima volta, le mani dei due amanti si sfiorano, poi si toccano, e si intrecciano sempre più flessuosamente, in un crescendo continuo ed accelerato che non può non ricordare l'approssimarsi di un orgasmo...
Dove la simbologia, in effetti trasparente, sostituisce con delicatezza e pudore, ma con maggiore efficacia, la descrizione eventuale di un realistico incontro sessuale. Bello, a pensarci, questo modo di proporre in chiave simbolica un fatto invece molto reale, per chi frequenta abitualmente gli incontri amorosi... l'intreccio delle mani è sempre il primo atto di confidenza e di accettazione da parte del partner, capace di manifestare la corrispondenza di amorosi sensi senza equivoci!

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Recensione SOGNI

Recensione sogni




Regia di Akira Kurosawa con Martin Scorsese, Mitsuko Baisho, Akira Terao

Recensione a cura di Giordano Biagio

Akira Kurosawa racconta 8 sogni autobiografici ordinandoli per senso storico e stile narrativo. Lo stile di scrittura prevale sugli aspetti contenutistici ponendosi al centro dell'attenzione visiva: la sua caratteristica è di essere genialmente in sintonia con le emozioni presenti nella narrazione.
Uno stile che brilla visivamente grazie all'associazione simultanea tra luce e colori. Questi ultimi appaiono legati a significanti e miti presenti nello stato di pensiero autobiografico dell'autore.
Il regista giapponese crea uno sfondo scenico d'insieme simile a un suggestivo mandala colorato, un disegno che ci trasporta subito negli emozionanti meandri della cultura orientale.

Akira Kurosawa (Giappone 1910-1998) è stato tra i più grandi cineasti giapponesi. Storicamente fa parte di quei pochi registi orientali la cui influenza è stata, ed è tutt'ora, sentita in tutto il mondo del cinema e della cultura occidentale, in modo particolare per le modalità della scrittura visiva.
Cineasta di ottima cultura orientale viene coinvolto con entusiasmo anche dai codici linguistici della cultura occidentale in particolare per quel che riguarda il teatro nordico. Di quest'ultimo approfondisce e a volte traspone sullo schermo in chiave nipponica (vedi "Trono di sangue") le opere di uno degli autori più significativi e geniali d'Europa: Shakespeare.
Alcune notizie di stampo enciclopedico lo danno discendente da una antica famiglia di samurai (soldato che apparteneva alla guardia del palazzo imperiale) e questo spiegherebbe almeno in parte il suo attaccamento emotivo e professionale al soggetto samurai che è magistralmente presente in alcuni suoi film di gran successo.
Kurosawa è stato anche pittore di valore, campione di Kendo (tipo di scherma giapponese in cui i partecipanti indossano una corazza e una robusta maschera e sono armati di una lunga spada di bambù) e anche appassionato giocatore di golf.

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venerdì 21 aprile 2006

Recensione JUNGLE FEVER

Recensione jungle fever




Regia di Spike Lee con Wesley Snipes, Annabella Sciorra, Spike Lee, Ossie Davis, Ruby Dee, Samuel L. Jackson, John Turturro

Recensione a cura di peucezia

Film del 1991, "Jungle fever" si occupa di una tematica non nuova nella cinematografia d'oltreoceano e sempre scottante ed attuale (vedasi il recente "Crash"), vale a dire il razzismo o meglio le relazioni interpersonali tra popoli di diverse etnìe costretti a coabitare loro malgrado anche a poche miglia gli uni dagli altri.
Spike Lee (che si ritaglia un ruolo di comprimario) affronta il tema contrapponendo due comunità diversamente integrate negli Stati Uniti: la comunità afroamericana e quella degli italoamericani, tra l'altro già prese in esame in un precedente film, "Fa' la cosa giusta".

Il film è strutturato in tanti piccoli quadretti nei quali si svolgono le storie e sottostorie dell'intreccio e principalmente l'azione privilegia le inquadrature in interno. Il "coro" (di qui l'impostazione quasi teatrale della vicenda) sottolinea e commenta, sempre con un linguaggio arguto e mordace, adeguato ai due gruppi etnici contrapposti.
Se in "Fa' la cosa giusta", Lee aveva dimostrato di "stare" dalla parte dei neri, gruppo al quale egli appartiene, in questa pellicola da una parte è sicuramente più neutrale, dall'altra però individua nel gruppo afroamericano un temperamento e una rivalsa maggiore rispetto al gruppo italiano più rassegnato e ripiegato sulla nostalgia di un passato e di un senso di appartenenza forse sentito solo a a parole.
I singoli non sono veramente padroni delle loro azioni perché, in nome del senso di appartenenza, si lasciano guidare dalla logica del gruppo più che da quella del loro cuore o della loro razionalità. Ecco che quindi una probabile storia d'amore tra un nero architetto di successo e una segretaria italoamericana di umile estrazione viene schiacciata dai pregiudizi e dei razzismi congeniti e innestati dagli altri. E' stato amore o voglia di esplorare territori nascosti? E' giusto per un nero "stare" con una donna bianca? Che sentimenti provano i mulatti? Che sentimenti provano i neri più scuri?

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giovedì 20 aprile 2006

Recensione BILLY BATHGATE - A SCUOLA DI GANGSTER

Recensione billy bathgate - a scuola di gangster




Regia di Robert Benton con Dustin Hoffman, Nicole Kidman, Loren Dean, Bruce Willis, Steven Hill, Steve Buscemi, Billy Jaye ,John Costelloe, Stanley Tucci

Recensione a cura di Luca.Prete

Il film di Robert Benton è tratto dal romanzo omonimo di Edgar L. Doctorow (1988) e narra la storia di un ragazzo di origine irlandese di nome Billy (Loren Dean) che vive in una strada del Bronx chiamata Bathgate.
Da sempre un grande ammiratore del boss malavitoso Arthur Flegenhoimer, detto Dutch Schulz (Dustin Hoffman), Billy desidera fortemente entrare nella sua banda, disposto a ricoprire qualunque ruolo e mansione. Con una buona dose di fortuna e casualità, riesce nella sua missione e in breve tempo, diventa il vero pupillo del boss.Il ragazzo entra in contatto con un mondo spietato e violento, fatto di uccisioni e modi più disparati per depistare la giustizia e far apparire l'organizzazione di Schultz (l'assoluzione del boss presso un tribunale di una piccola cittadina) non assolutamente malavitosa, ma bersaglio degli accanimenti senza motivazioni del governo.
In particolare, a Billy, sarà affidato il compito di proteggere e seguire come un'ombra Drew (una giovanissima ma altamente sensuale Nicole Kidman), la pupa di Schultz; tra i due nascerà una forte attrazione che scaturirà in un innamoramento che tuttavia, non avrà alcun seguito.
La scena finale, nella quale si compie lo sterminio nel bar della banda del boss per mano degli uomini di Lucky Luciano, è considerata una delle migliori del film per l'accuratezza dei dettagli dei fatti e delle ambientazioni.

Il film, in alcuni punti, riesce a rappresentare efficacemente le tipiche situazioni gangsteristiche e criminose degli anni '30, e questo è sicuramente un pregio.
Tuttavia, tranne che per l'ottima interpretazione di Hoffman (la sua gestualità ed espressioni valgono di più di molti dialoghi o monologhi) e di Steven Hill (attore troppo sottovalutato, molto più impegnato in televisione piuttosto che sul grande schermo), la prova degli altri interpreti (fra cui Bruce Willis e un giovane Steve Buscemi) è come se subisse la storia, adattandosi ad essa e non viceversa.
Quello che emerge è un film nel quale la raffigurazione visiva delle atmosfere ed appunto delle situazioni possiede un ruolo maggiore rispetto al lavoro recitativo.
Questo discorso vale sia per Nicole Kidman, che quando girò questo film, era approdata ad Hollywood da solo un anno ("Giorni di Tuono" del '90) e quindi ancora acerba - l'attrice australiana offre una recitazione tendente ad esaltare soprattutto la sua fisicità (appare completamente nuda in un paio di scene) e di fémme fatale ma poco incline a mettere in risalto una varietà espressiva - sia per Loren Dean che interpreta il giovane Billy - la performance offerta dall'attore è abbastanza convincente quando si tratta di rappresentare la goffaggine e la forte timidezza tipica del ragazzo, ma è come se quell'attitudine dovesse essere obbligatoriamente presente in tutte le situazioni del film, anche in quelle più drammatiche apparendo, in questo modo, troppo monocorde.

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mercoledì 19 aprile 2006

Recensione DANZA LA COSCIENZA

Recensione danza la coscienza




Regia di Luca Bronzi, Sonia Trinchero con Angélique Cavallari, Rossana Mariani, Michele Ungaro, Rodolfo Tabasso, Maurizio Donadeo, Roberto Voarino, Carola Cauchi, Marion Cordier, Alina La Costa

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Sotto l'ombrello protettivo di Film Commission, Comunità Europea e Città di Torino, nasce all'ombra della Mole un film tutto giovane, pensato, diretto e realizzato da una coppia di ragazzi, lui alla macchina e alla regia, lei allo studio del soggetto (meno di 50 anni in due!). O, almeno, così doveva essere, nelle intenzioni originarie, a giudicare dai bandi circolanti per la ricerca delle comparse (oltre 400, reclutate con esplicito invito al no profit!).
Evidentemente nel corso del lavoro gli apporti sono mutati, se è vero che, infine, risulta il nome di due registi, lei e lui, Sonia Trinchero e Luca Bronzi, e che al titolo viene aggiunto un sottotitolo esplicativo, pretenziosamente didascalico: "la ricerca del Sé passa attraverso l'amore"; così, come se niente fosse... per un assioma indiscutibile, di tono catechistico.
Diamo rilievo alla cosa per evidenziare come nella visione del film emergano in effetti due apporti molto distinti; quello puramente filmico, di immagini, fotografia e riprese, e quello di soggetto, sceneggiatura e dialoghi: il primo, un po' fine a se stesso, estetizzante, istintivamente sperimentale, vivace, emotivo e multiforme, il secondo freddo e cerebrale, alla ricerca confusa di verità psico-filosofico-esistenziali fondamentali, e pertanto infarcito di citazioni di ogni genere, da Einstein a Schopenhauer, di conoscenze psicanalitiche e credenze orientaleggianti e/o new age.

Curioso che tali differenze coincidano in genere con il gap tra maschile (freddo - razionale - poco emotivo - concettualizzante e sintetico) ed il femminile (più "di pancia" - immaginifico - fantasioso - estemporaneo - analitico e "decorativo"); requisiti che invece, nella fattispecie di "Danza la coscienza", sembrano stranamente invertiti, distribuendosi in modo opposto tra il Lui e la Lei della regia. Un po' come se "lato sinistro" e "lato destro" del cervello dovessero cambiare la loro disposizione fisiologica tendenziale, con una sovrannaturale permutazione genetica.
Ma, per tranquillizzare il lettore, fortunatamente "natura non facit saltus"... e la conclusione del film sarà invece al femminile più ortodosso: solo entrando in una relazione d'amore la protagonista troverà una panacea per il male dell'esistenza e uscirà dallo stato autistico e depressivo a lei abituale.
Beh, proprio una storia nuova non diremmo, oltre che penosamente improbabile! Dunque non si illudano i giovani di risolvere le proprie problematiche esistenziali scaricando su un partner il fardello dei propri bisogni... Ma anzi si sforzino di capire che il "centro di se stessi" auspicato nel film, può consistere solamente nella realizzazione di una identità personale di individui che camminino sulle loro gambe, in modo totalmente autonomo, con una buona dose di autostima.
Solo in questo modo avranno la giusta energia per relazionarsi alla pari non solo con il partner amoroso, ma col resto dell'umanità di cui fanno parte (e qui la citazione "atomistica" di Einstein ci sta bene), realizzandosi appieno.

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Recensione MALCOLM X

Recensione malcolm x




Regia di Spike Lee con Denzel Washington, Angela Bassett, Albert Hall, Al Freeman Jr., Spike Lee, Delroy Lindo, Theresa Randle, Tommy Hollis, Lonette McKee, Kate Vernon

Recensione a cura di Giordano Biagio

Questa opera di Spike Lee illustra in una forma romanzata e a tratti storica la realtà politica e biografica di "Malcolm X": leader della Nazione dell'Islam statunitense, braccio destro di Muhammad capo dell'organizzazione stessa. E' un film sul tragico ed esteso razzismo presente negli Stati Uniti negli anni '50 e '60.
Il film sfiora il capolavoro sia per la fedeltà storica agli avvenimenti che per la credibilità politica delle scene. Queste ultime rispettano anche le esigenze di spettacolo del film: grazie a un'ottima capacità di Lee nell'alternare alle scene dense di significato politico sequenze di folclore nero ricche di musica.

Tuttavia nel film c'è qualcosa di inverosimile sul piano del linguaggio. I dialoghi e alcuni modi di esprimersi di Malcolm non sono molto credibili. Qualcosa di troppo occidentale e familiare balza agli occhi facendo dubitare dell'autenticità dei linguaggi usati da Lee. Sembra che Lee, nei dialoghi e nella gestualità propria degli afroamericani, trasponga con troppa disinvoltura codici linguistici di largo uso hollywoodiano, in particolare per quel che riguarda i comportamenti rituali e di costume degli uomini di colore. Penso che in parte ciò sia dovuto alla forte integrazione culturale di Spike Lee nella società americana. Il movimento del NOI (Nazione dell'Islam) era un movimento separatista: geloso di conservare le proprie identità culturali e di costume; restio a recepire le sollecitazioni ad integrarsi che venivano da altri settori afroamericani, quelli più cristiani. Il suo linguaggio era chiuso e ancora molto fedele alle proprie origini.

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martedì 18 aprile 2006

Recensione LA STAZIONE

Recensione la stazione




Regia di Sergio Rubini con Sergio Rubini, Margherita Buy, Ennio Fantastichini

Recensione a cura di peucezia

Film del 1991 ed ottimo esordio alla regia di Sergio Rubini, dopo alcune prove da attore in ruoli minori, (eccezion fatta per il ruolo da protagonista ne "L'intervista" di Federico Fellini) il film "La stazione", pur essendo una pellicola senza pretese, girata in economia, si offre invece come una prima valvola di sfogo al, già da allora, problematico scenario del cinema italiano.
Strana commistione di generi e di diverse ispirazioni: a partire dall'autobiografia (il padre di Rubini è stato un capostazione), al richiamo verso le proprie radici (il film è stato quasi interamente girato a Grumo, il paese d'origine del regista nella locale dismessa stazione), all'atmosfera "giallo-thriller" stile "Cane di paglia" di Peckinpah.

Il timido e stralunato protagonista, fisico a metà tra il buffo e taciturno Keaton e il moderno Troisi, vive in suo "piccolo mondo antico" in una stazione ferma agli anni Cinquanta, così come il film in bianco nero trasmesso dal vecchio televisore: "In nome della legge" di Germi.
Infatti la legge, le regole sono fondamentali per lui, sempre chiuso nell'ufficio del capostazione, dedito a cronometrare ogni cosa e a studiare da un improbabile ed inutile corso a dispense di tedesco. Questo quadretto quasi idilliaco di "ritorno al passato" è interrotto dalla contrapposizione con il mondo esterno ricco e viziato rappresentato dalla giovane donna che irrompe all'improvviso nella quiete di chi rifiuta il mondo di fuori, strana vita che vede passare così come passano, "transitano" i treni che si allontanano e si dirigono verso mete remote.
Lo stampo prettamente teatrale della storia si fossilizza nel dialogo che si sviluppa tra i due protagonisti: da un lato la giovane donna, moderna ed indipendente ma a sua volta "chiusa" e trincerata dietro il suo mondo, dall'altro il capostazione che rifiuta l'idea di vivere a Roma "perché senza una piazza dove passeggiare e il bar con gli amici tutto è noia".

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venerdì 14 aprile 2006

Recensione TRISTANO E ISOTTA

Recensione tristano e isotta




Regia di Kevin Reynolds con James Franco, Sophia Myles, Rufus Sewell, David O'Hara, Henry Cavill, JB Blanc, Jamie King

Recensione a cura di elfavy

La Storia di Tristano e Isotta appartiene in realtà ad una leggenda celtica del XI secolo: narra la storia d'amore tra Tristano e Isotta dai capelli d'oro che dopo aver bevuto un filtro magico finiscono per essere travolti da un amore tanto grande quanto impossibile che li conduce poi a morte certa. Il primo a scriverne un libro fu Thomas e, come si evince dal trailer, molto, molto, tempo prima che Shakespeare consumasse la tragedia di Romeo e Giulietta. L'amore tormentato di questi due personaggi è stato per secoli ripreso più volte da grandi scrittori e rielaborato in Germania, Francia, Italia nei svariati poemi e versi a loro dedicati. Nel 1998 con la regia di Fabrizio Costa ne viene realizzato un magnifico film con Ralf Bauer per Tristano e Lea Bosco come Isotta. Il film di Fabrizio Costa rimane fedele alla leggenda e non solo la sceneggiatura è ottima ma anche l'interpretazione dei due attori è ineffabile in quanto esprimono tutto il dolore vissuto da Tristano e Isotta. Il film è stato diviso in due puntate trasmesse poi dalla tv e il successo ha permesso al Tristano & Isotta di Costa di approdare anche in Inghilterra e in Germania.
Nel 2006 invece la sceneggiatura viene stravolta e a girare il film è Kevyn Reynolds, sotto la produzione di Ridley Scott assieme al fratello Tony.

Il film inizia narrando la storia del giovane inglese, Tristano, che dopo aver visto morire i suoi genitori per mano degli Irlandesi viene accolto nella casa dello zio Lord Marke signore di Cornovaglia. Sebbene corre ancora grande astio tra Irlanda e Inghilterra, Tristano cresce in salute diventando un valoroso cavaliere e proprio grazie alle sue abili qualità con la spada riesce ad uccidere il terribile irlandese Morholt mandato dal Re Donnchadh d'Irlanda per compiere un massacro in Cornovaglia. Tristano e i suoi compagni riescono a debellare i nemici ma allo stesso tempo il giovane ragazzo viene ferito e, creduto morto, viene posto in una barca e lasciato andare nel mare secondo il rito funebre.
Ma Tristano non è morto e quando la barca si riversa sulle sponde Irlandesi Isotta, figlia del Re Donnchadh, celando la sua identità, lo salva. Come narra anche la leggenda i due si innamorano e costretti dalle origini devono lasciarsi, sarà poi un duello tra casati inglesi voluto dal Re d'Irlanda con in palio la bella Isotta, a far incontrare nuovamente i due giovani, anche se Tristano partecipa per conto di Lord Marke. Solo alla fine del torneo scopre tristemente che la giovane figlia di Donnchadh è in realtà la sua amata.

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