martedì 4 aprile 2006

Recensione TRANSAMERICA

Recensione transamerica




Regia di Duncan Tucker con Felicity Huffman, Kevin Zegers, Fionnula Flanagan, Graham Greene, Burt Young, Elizabeth Peña

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Ogni popolo ha un'anima collettiva che esprime attraverso riti o liturgie, a seconda della morale di fondo, essenzialmente laica o religiosa.
Così gli indù fanno il bagno nel Gange, i musulmani sognano di andare a La Mecca, i cattolici attendono il Papa sotto le finestre di S. Pietro, o seguono il cammino di Santiago.
Comune a tutti la ricerca di una maggiore spiritualità e di una più profonda autoconoscenza, con un processo di crescita /salvazione attraverso esperienze comunque catartiche.
Le quali, dunque, non nascono necessariamente, da un' istanza di redenzione dal peccato, ma sovente da un anelito "psico-genetico" al "reperimento dell'individualità profonda" attraverso una particolare prassi; alla quale si conferisce un ruolo simbolico di ritualità, mentre forse basterebbe parlare di una legge "etologica", necessaria ad una certa specie per realizzare le proprie virtualità secondo natura.
Ad esempio i vecchi naviganti, sostenevano che per imparare a nuotare bisogna gettarsi in mare; dove l'evento, semplice strumento per apprendere, acquista valenza simbolica di battesimo dell'acqua. Ma vale lo stesso per il servizio militare di una volta: era una vera iniziazione alla vita adulta e al (sano) distacco dalla famiglia di origine.

La lunga premessa per introdurre al rito del viaggio coast-to-coast dei protagonisti di "Transamerica", per il quale molti commentatori hanno parlato di Road Movie, scomodando a sproposito la logica beatnick della vita on the road. Nell'ottica di questi, infatti, il viaggio è un fine esistenziale, bastevole a se stesso: "Dove andiamo? Non lo so... ma dobbiamo andare!! Compiere l'unica vera, nobile azione nel tempo... ANDARE!!".
Nel film, al contrario, l'attraversamento degli States è visto nell'ottica da noi sopra delineata di "fase rituale" dell'individuo, a lui indispensabile per approdare ad un cambiamento radicale del proprio Io attraverso un processo catartico di autocoscienza. Cosa che, infatti, succede ai due protagonisti, figlio e genitore, che nel loro lungo peregrinare attraverso deserti e montagne del centro America, imparano a conoscersi e ad accettarsi, singolarmente e reciprocamente.
Viaggio simbolico, come metafora dell'esistenza, anche per come si sviluppa durante il racconto, negli incontri col vecchio pellerossa, col furto subito dal giovane autostoppista, e le "marchette" effettuate nei cessi dei motel per "rimediare" qualche spicciolo.
E, per finire, con l'ingresso fatale nella casa dei genitori: proprio come nel grande happening di una seduta di gruppo psicodrammatica. Dove, ovviamente, vengono a galla le peggio cose, sufficienti a spiegare il disagio esistenziale di almeno tre generazioni del nucleo consanguineo. Ma proprio da questa presa di coscienza, le fragili figure dei protagonisti usciranno corroborate e, finalmente autonome, rinunciando alle più facili vie di fuga (droga e prostituzione), in virtù di una riguadagnata dose di affettività, vicinanza reciproca e solidarietà.

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