martedì 1 marzo 2011

Recensione IL GRINTA

Recensione il grinta




Regia di Ethan Coen, Joel Coen con Jeff Bridges, Hailee Steinfeld, Josh Brolin, Matt Damon, Barry Pepper, Paul Rae, Domhnall Gleeson, Elizabeth Marvel, Ed Corbin, Dakin Matthews, Joe Stevens, Mary Anzalone, Bruce Green (II), Brian Brown, Mike Watson

Recensione a cura di Stefano Santoli (voto: 6,0)

I titoli sono importanti. Il soprannome che nell'immaginario italiano degli amanti del western è in origine legato al personaggio che fece vincere a John Wayne l'unico oscar della sua carriera, è un'invenzione di chi diede un titolo italiano al film "True grit" del 1969. Negli Stati Uniti, probabilmente, "Il Grinta" non sanno nemmeno chi sia. Per noi spettatori italiani, invece, "Il Grinta" è il personaggio che fu di Wayne, e che nel film dei Coen è interpretato da Jeff Bridges. Il soprannome inglese del personaggio di Reuben J. Cogburn è "Rooster", ossia... "gallo" (!).
"True grit" s'intitola anche il romanzo di Charles Portis del 1968, di cui sia il film di Henry Hathaway con John Wayne, sia quello di Joel ed Ethan Coen del 2010 sono trasposizione.
"Grinta" è traduzione libera, per assonanza della parola "grit" (graniglia, sabbia, ghiaia; "to grit", raschiare, stridere, stringere i denti). L'espressione "true grit", proprio grazie al romanzo e al film, è venuta ad indicare l'ostinazione e il coraggio che sorreggono in situazioni complicate.
Questa ostinata determinazione non appartiene affatto al personaggio di Cogburn, bensì a colei che è l'indiscussa protagonista: il personaggio della quattordicenne Mattie Ross (che, divenuta donna, parla in prima persona nel romanzo di Portis di una vicenda accadutale da adolescente).
Nel film dei Coen, è sua la voce narrante del breve prologo, e dell'epilogo (entro i quali la vicenda del film è racchiusa come un flashback). Nel bell'epilogo, che tra l'altro costituisce il più significativo scostamento dal film del 1969 (non è del tutto corretto parlare di remake: il film dei Coen rappresenta una seconda versione cinematografica del romanzo), vediamo Mattie Ross, invecchiata di venticinque anni (ma sembrano di più), raccontare in breve qual è stato il suo destino di donna: il prezzo che ha dovuto pagare per il suo carattere così poco subordinato alle logiche maschili. Diventare una "zitella bisbetica": questo il prezzo dovuto, nel vecchio west, per una modernissima eroina che a soli quattordici anni è partita in cerca di vendetta nei confronti dell'assassino di suo padre.

Il romanzo di Portis (inizialmente pubblicato n Italia con ancora un altro titolo: "Un vero uomo per Mattie Ross", e adesso re-distribuito con il titolo italiano dei due film, per ragioni commerciali) è ammirato per le sue qualità letterarie (trova spazio anche nei programmi scolastici). In occasione di questo che è il loro primo "western" in senso proprio (il duo di Minneapolis hanno sempre rifiutato quest'etichetta per "Non è un paese per vecchi"), i Coen hanno dichiarato di amare molto lo scrittore: in effetti, i caratteri della narrativa di Portis sembrano vicini a quelli del cinema dei Coen: attenzione (sur)realista condita da humor per tipi umani particolari ritratti nel contesto sociale della profonda provincia statunitense.
Sembra che il film dei Coen sia particolarmente fedele allo spirito del romanzo. Per quanti, come chi scrive, non abbiano letto il romanzo, il film appare – nella trama – sostanzialmente fedele anche al primo film. Se lo si volesse intendere come remake, apparirebbe un remake molto rispettoso. Le differenze non mancano, certo. Si è detto di come l'epilogo sia significativamente diverso; e altri sono i passaggi in cui i film divergono, specialmente nella seconda parte della storia, dove il film dei Coen è figurativamente molto più inventivo rispetto al primo film – pensiamo in particolare ad alcuni episodi apparentemente secondari (quello del "tiro al piattello" con le focacce di mais, o l'incontro con un surreale "dentista" smarrito in terra indiana, ricoperto di una pelliccia d'orso: forse il momento più "coeniano" dell'intero film), ma soprattutto alle ambientazioni, spesso notturne (si svolgono di notte, con efficacia, molte sequenze diurne nel film del 1969), e invernali – moltissima la neve, e quasi altrettanta la pioggia (ottima la fotografia di Roger Deakins).
Poi naturalmente ci sono le differenze di messa in scena, per cui il film dei Coen si può tranquillamente dire più felice e più riuscito, oltre che più moderno, nello stile (laddove invece "Il grinta" del 1969 appariva polveroso e stanco, adagiato su vecchi stereotipi proprio negli anni in cui il genere stava vivendo una profonda e significativa trasformazione). Si confrontino in questo senso le due scene dell'attraversamento del fiume a cavallo da parte della protagonista Mattie, felicemente risolta dai Coen con una serie di campi medi e primi piani a pelo d'acqua che restituiscono molto meglio che nel primo film lo sforzo fisico e l'avventatezza di gettarsi in mezzo ai flutti tumultuosi di un corso d'acqua.
Confrontando i due film è evidente il maggior spessore registico dei fratelli Coen rispetto a quello di Hathaway. E' anche una differenza di spessore "autoriale", dacché i Coen sono autori della sceneggiatura. Ogni scelta diegetica è da imputarsi a loro: a partire dall'altra maggiore differenza con la pellicola di quarantun anni prima, ossia la scelta di non mettere in scena la morte del padre di Mattie, cui Hathaway dedicava i primi minuti della sua pellicola. Scelta, questa, che indica l'intenzione di non far montare nello spettatore l'emotività che sarebbe derivata dalla visione dell'assassinio (dopo aver visto l'affettuoso rapporto della protagonista con il proprio padre). I Coen, tagliando questa sezione, mettono in netto rilievo lo spirito, la determinazione di vendetta della grintosa ragazzina, che viene assunto come un dato di fatto, la cui causa viene offerta come mera nozione.
Per inciso, l'interpretazione dell'esordiente Hailee Steinfeld, che ha effettivamente 14 anni, è assolutamente egregia. Inspiegabile, come spesso accade, la sua candidatura all'oscar come "non protagonista", quando è lei al centro della vicenda, e presente in ogni sequenza del film, quasi in ogni inquadratura.

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