martedì 8 marzo 2011

Recensione LA DONNA CHE CANTA

Recensione la donna che canta




Regia di Denis Villeneuve con Lubna Azabal, Mélissa Désormeaux-Poulin, Remy Girard, Maxim Gaudette, Allen Altman

Recensione a cura di Mimmot

Fino alla prima metà degli anni '70 il Libano era considerato la Svizzera del Medio Oriente. Il paese era un esempio di ospitalità e luogo di incontro cosmopolita, un avamposto di modernità incastonato nel mezzo di un mondo conservatore, dai caffè alla moda alle località sciistiche esclusive, dagli alberghi di lusso ai casinò per uomini d'affari.
Tra il 1948 e il 1975 la politica laica e "liberale" attuata dal governo consentì di accogliere nel paese parecchie centinaia di migliaia di rifugiati palestinesi, cacciati dalla loro terra e dalle loro case dai coloni israeliani, da quando cioè la creazione di Israele costrinse decine di migliaia di civili a trovare rifugio più a nord, nel Paese dei cedri.
Il Libano diventò da allora la principale base operativa della resistenza palestinese, esponendosi alla violenta rappresaglia israeliana, e il paese dove si sono ritrovati a vivere forzatamente gente di etnie diverse, ma anche e soprattutto di religioni diverse. C'erano Cristiani Maroniti, Mussulmani, Drusi, Cristiani nazionalisti; ma soprattutto c'era odio etnico e vendette sedimentate, interferenze straniere e caos incontrollabile.
In questo contesto così variegato e così tormentato nel 1975 scoppiò una violenta e fratricida guerra civile, un grande conflitto etnico-religioso che durò fino agli inizi degli anni '90; 15 anni di combattimenti, massacri e tensioni che hanno provocato - fra civili e militari - più di 150.000 morti ed effetti devastanti sull'economia del paese.

In questo crogiolo di lingue, culture e religioni, dove ancora oggi si continua ad uccidere in nome di Dio, si sviluppa il prologo della storia tragica e disperata di Nawal, una donna libanese estremamente coraggiosa e dalla indomabile forza interiore. La ritroviamo alcune decine di anni dopo ad Ottawa, nel Quebec canadese, lontana dal paese che l'ha segnata profondamente, dove si è rifugiata per crescere i suoi due gemelli, Jeanne e Simon, ma anche per lasciarsi alle spalle il suo passato, colpevole di aver amato un mussulmano palestinese.
Un amore finito nel sangue, dall'odio che i suoi fratelli, cristiani maroniti, avevano per i mussulmani fuggiti da Israele (triste metafora del massacro di Sabra e Chatila).
Da quell'uomo, Nawal ha avuto un figlio maschio: Abou Tarek, di cui Jeanne e Simon hanno sempre ignorato l'esistenza, così come hanno ignorato che il loro padre non è morto, come la madre aveva fatto loro credere.

[...]

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