mercoledì 21 giugno 2006

Recensione NEL NOME DEL PADRE

Recensione nel nome del padre




Regia di Jim Sheridan con Daniel Day-Lewis, Emma Thompson, Pete Postlethwaite, Anthony Brophy, Beatie Edney, John Lynch, Frankie McCafferty

Recensione a cura di GiorgioVillosio

Più volte mi è successo di non condividere la scelta di Produzioni e Distribuzioni in merito al titolo dei film di origine letteraria; per rispetto basilare della volontà degli Autori dei testi, ma pure per non ingenerare equivoci sui temi trattati.
Mi succede di nuovo con il meraviglioso film-denuncia anglo irlandese del '93, superpremiato al Festival di Berlino del '94, ove il titolo originario di "Proved innocent", veniva sostituito da un altro di difficile comprensione come "In the name of the father", per noi "Nel Nome del Padre".
La cosa si presta a due facili equivoci, di identità, in primis, ma pure di sostanza concettuale. Di identità, perché porta il nome di un film, relativamente recente, di Bellocchio, che nel '71 contava ben altra storia, volendo di segno opposto; di concetto, poi, perché nel film di Sheridan si muovono in parallelo due diverse tematiche, una di denuncia etico-politica, l'altra di natura psicologico-ancestrale, unica, quest'ultima, a rispecchiarsi nel titolo prescelto.
Ciò detto devo proprio all'equivoco del nome se ho potuto scoprire un film di questo calibro in TV, inopinatamente sfuggitomi ai tempi della sua uscita (fortunatamente in televisione non ci sono solo stupidaggini come "grandi fratelli e isole famose!!!").
Come anticipato, il film anglo-irlandese tocca due corde fondamentali dell'esistenza umana: la vita civile e sociale, con il drammatico racconto di un clamoroso e perverso errore giudiziario, e la psicologia dell'individuo, coi suoi riflessi emotivi, in gran parte riconducibili all'estrazione familiare ed ai rapporti edipici. Tratteremo separatamente le due componenti del film, preannunciando che entrambe risultano assolutamente convincenti per profondità di pensiero, vis drammatica, pathos psicologico e credibilità narrativa.

"I Quattro di Guilford", come li conosceva l'opinione pubblica, erano quattro hippies irlandesi, che, proprio in quanto tali, venivano ingiustamente e proditoriamente incarcerati, per quindici anni, come responsabili di un attentato in una birreria di Londra; il bisogno di un capro espiatorio per tacitare la paura dei benpensanti sudditi della Regina, metteva le autorità di Polizia in condizione di falsificare le carte, nascondendo addirittura le prove della loro innocenza.
Niente di mai visto, se vogliamo, pensando all'Italia delle BR, come ai carcerati di Guantanamo, all'America di Sacco e Vanzetti come alle storie più recenti dall'Iraq! Ma davvero unici, e straordinariamente convincenti sono i modi narrativi del film, dove l'asciuttezza del racconto, l'essenzialità della regia e la tragicità delle vicende riconducono non solo "l'occhio estetico", ma ancor più la coscienza morale dello spettatore ai principi istituzionali del diritto di tutti i paesi, che predica da sempre "in dubio pro reo" (pensiamo alla pena di morte!)!
La vita del carcere e la violenza ivi stagnante sui due fronti, sono qui rappresentati con lucidissima sintesi, senza indulgere all'effetto facile come negli analoghi film yankee. Mentre il possibile residuo barlume di umanità dei carcerati emerge in modo commovente nella scena simbolica di commemorazione del padre appena morto, con il lancio dei fazzolettini accesi dalle finestre, quali virtuali colombe di pace. A ciò concorre in modo determinante la superlativa interpretazione di tutti gli attori (eh... la grande scuola inglese... dove tutti sanno recitare... non come qui da noi... dove emergono anodini personaggi osannati da un pubblico frivolo solo perché carini, fotogenici... e tanto femminili...!).

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