Recensione epitaph
Recensione a cura di Nicola Picchi
Nel 1979, l'anziano dottor Park Jung-nam viene a sapere che l'ospedale dove iniziò il suo apprendistato sta per essere demolito e, sfogliando il suo vecchio album di fotografie, torna indietro con la memoria al 1942, ai tempi dell'occupazione giapponese della Corea.
Inizia con questo brevissimo prologo il promettente debutto di Jeong Beom-sik e Jeong Sik, che fin dall'incipit manifestano la volontà di prendere le distanze dai recenti (e bruttissimi) horror coreani di ambientazione ospedaliera, come "The Cut" e "Return", bolsi ed ipertrofici nel loro inseguimento a tutti i costi degli stereotipi del thriller americano.
"Epitaph" ha invece un tocco curiosamente retrò, dettato non solo dall'ambientazione ma anche dalla fotografia e dalla colonna sonora, e sembra semmai ispirarsi alla più sofisticata tradizione giapponese della ghost-story classica.
All'interno dell'Anseng Hospital si intrecciano tre storie simultanee di amore e morte, che vedono testimone, ed in un caso protagonista, proprio il narratore: è infatti un giovanissimo dottor Park a restare turbato e pericolosamente affascinato dall'arrivo all'obitorio di una bellissima ragazza suicida, rinvenuta annegata in un fiume ghiacciato.
Nella seconda storia Asako, l'unica sopravvissuta di un incidente stradale in cui ha perso la sua famiglia, è ossessionata dal fantasma della madre morta.
Il terzo segmento vede invece protagonisti il chirurgo Dong-won e sua moglie In-young, apparentemente coinvolti negli inspiegabili assassinii di alcuni soldati giapponesi.
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