venerdì 8 settembre 2006

Recensione LE COLLINE HANNO GLI OCCHI

Recensione le colline hanno gli occhi




Regia di Alexandre Aja con Aaron Stanford, Vinessa Shaw, Kathleen Quinlan, Laura Ortiz, Michael Bailey Smith, Dan Byrd

Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli

Da molti anni a questa parte le case di produzione americane impongono al pubblico, e nel contempo subiscono, quella che sta diventando la dittatura dei remake. Nel passato lo aveva già fatto il grande Alfred Hitchcock, rielaborando un suo stesso lavoro ("L'uomo che sapeva troppo"). In quello stesso periodo Howard Hawks, altro grande regista ed autore, a distanza di pochi anni dalla realizzazione di un capolavoro come "Un dollaro d'onore" (Rio Bravo, 1959) ne dirige un rifacimento in chiave più ironica "El Dorado" (1967). Poco tempo dopo, John Carpenter s'ispirerà all'originale di Hawks per mettere alla luce "Distretto 13 - Le brigate della morte", di cui a sua volta è stato girato l'ennesimo remake. E si potrebbe andare avanti per pagine e pagine intere.
Pur accantonando i sopraccitati grandi autori, che hanno avuto il vezzo di dirigere una seconda volta le loro stesse opere, negli ultimi decenni la pratica del remake si è imposta con quella stessa puntuale e sgradevole prepotenza con cui uno stato impone le tasse. Si è passati da remake eccellenti e fedeli di film geniali ("Scarface" di H. Hawks, 1930-32, "Scarface" di B. De Palma, 1983) a rifacimenti "fotocopia" assolutamente inutili come lo "Psycho" realizzato da Gus Van Sant nel 1998.
Fra tutti i generi cinematografici quello che ha subito maggiormente la disgustosa pratica del remake tanto inutile, quanto nocivo all'immagine del film originale, è stato il genere Horror. La cosa viene giustificata con le migliorie tecniche nella fotografia, nel digitale, nel trucco eccetera, che consentono di riprendere storie classiche e di dotarle di un maggiore impatto visivo.

Ecco, questo non è il caso di "Le colline hanno gli occhi". Il film del giovane regista parigino, Alexandre Aja, è sì il remake dell'omonima pellicola diretta nel 1977 da Wes Craven, che qui ritroviamo come produttore, ma va oltre. Aja, insieme col sodale Greg Levasseur, ha riscritto la sceneggiatura di Craven introducendo alcuni nuovi elementi e cercando di strutturare meglio la storia. Non si tratta del solito revival del gusto anni settanta, bensì di una rielaborazione in chiave moderna della storia, che risulta ampliata e più articolata.
"Le colline hanno gli occhi" più che un remake sembra essere un lifting dell'opera originale. È come se Craven si fosse affidato ad Aja, alla stregua di una vecchia beghina che nella serie televisiva Nip/Tuck si affida al bisturi del dottor Troy. E in questo caso il regista ha preso la consegna, ha tagliato e ricostruito, ha liftato e rimodellato, ha gonfiato labbra, tette e glutei, rifinito il naso ed alzato gli zigomi. Così, elementi che nella prima versione erano sottintesi o meramente accennati, prendono corpo, quasi come se il film di Craven fosse stato un semplice scheletro a cui bisognava aggiungere organi, muscoli e pelle. Il risultato è una pellicola più sviluppata, ampliata e ingigantita, ripulita specialmente sul piano visivo, ma come spesso accade nella chirurgia estetica, ci si trova di fronte a una menzogna, ad un involucro scevro di contenuto narrativo. E con ciò non si fa affatto riferimento ai contenuti metaforici e sociali, ripresi pari pari dalla versione del '77 e, anch'essi, ampliati: una società che produce mostri e deve pagarne le conseguenze, la distruzione della famiglia piccolo borghese, la riscoperta della bestialità umana eccetera eccetera.
Alexandre Aja ci sa fare con la macchina da presa. Ci offre delle soggettive interessanti e delle discrete panoramiche, che sanno trasmettere perfettamente la percezione del deserto come una prigione a cielo aperto. Sa ben giocare con l'alternanza fra riprese di profondità e piani improvvisamente ravvicinati.
La ricostruzione del villaggio prefabbricato per i test nucleari, popolato da manichini - che sono decisamente più inquietanti e spaventevoli dei cannibali mutanti - è forse l'introduzione più riuscita. I suoi interni permetto al regista di giocare con riprese in controluce e di trasmettere sensazioni claustrofobiche che sono le dirette antagoniste di quell'agorafobia prodotta del deserto.
Una bella confezione, ma niente di più! Ed è qui che cominciano le dolenti note.

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