Recensione il bandito della casbah
Recensione a cura di Gilles
Il film di Julien Duvivier si inserisce perfettamente, per ispirazione e cronologia, nell'aria, per non dire nel movimento, del realismo poetico: sguardo cinematografico francese, che si ritiene abbia avuto il suo culmine storico tra il 1935 e il 1939, quando a fare cinema erano impegnati, per questa via, oltre Duvivier, autori come Jean Renoir e Marcel Carnè. Brividi caldi, volti disincantati, condanna sentimentale, brume umide sono le componenti delle tragiche vite dipinte dal realismo poetico; vite umili, stravolte dalla sfiducia nei confronti degli esseri umani, vite autolesionistiche per le quali non sembra esserci alcun raggio di sole, anzi segnate sempre più dall'affogamento fatale nell'istante della speranza. E nel "Bandito", Jean Gabin disegna un altro uomo disilluso dagli eventi e rassegnato al suo destino, qualunque esso sia; criminale per forza di cose, deciso da una volontà che non è la sua.
Poesia sublime, il destino di Pèpè le Moko. Questi è un bandito francese che, per affari loschi commessi in Francia, si rifugia ad Algeri; ma non solo: si rifugia nella casbah della città, luogo inaccessibile e impenetrabile per la polizia locale, a causa dei suoi infiniti cunicoli ombrosi e dei suoi tetti comunicanti. Pèpè così conduce l'esistenza tranquilla del Ras grazie ad un sistema d'informazioni e di passaparola che precede ogni azione delle forze dell'ordine. A sconvolgere la sua vita monarchica, e apparentemente serena, basta un incontro decisivo, secondo la "logica" (e diremo perché non si può parlare di logica, in questo senso) del realismo poetico.
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