Recensione son frere
Recensione a cura di Mimmot
Realizzato da Patrice Chéreau subito dopo "Intimacy", film scandalo del Festival di Berlino 2001, vincitore dell'Orso d'oro, "Son frére" prosegue il discorso del regista francese sull'accezione dei corpi, rappresentati spesso in modo crudo e realistico, scandagliati impietosamente nelle loro imperfezioni e nei loro difetti, mostrati con durezza nel decadimento fisico e nella loro disadorna involuzione.
Un discorso sui corpi, in genere segnati dalla vita, per nulla patinati, quasi mai belli, mai atletici, spesso nudi, quando la nudità diventa un'urgenza, quasi un modo, l'unico modo, per comunicare la propria visione delle cose.
Solo che, mentre in "Intimacy" i corpi umani erano raccontati nel sesso e nella spasmodica ricerca del piacere nella sua forma più intensa, in "Son frére" sono i corpi maschili ad essere raccontati, con la stessa spietata durezza, nella malattia e nello sfibramento fisico generato dall'incedere stesso della malattia, che consuma il corpo e lo spirito.
In entrambi i film, il corpo diventa, dunque, una sorta di fardello esistenziale, emblema della vacuità della vita e dell'amore stesso.
In una società come quella attuale, intesa a reclamizzare stili di vita che inneggiano alla bellezza, alla perfezione e anche agli eccessi stessi della giovinezza, un verdetto di malattia, più o meno grave, rappresenta per il paziente un evento traumatico e una prova esistenziale sconvolgente, in grado di generare vissuti di profonda sofferenza, in grado di coinvolgere tutti gli aspetti della vita, per esempio il rapporto con il proprio corpo, il significato della sofferenza, della malattia e della morte, così come le relazioni familiari, sociali, professionali.
Spesso a risentirne è la propria autostima che porta a reagire a questo stato attraverso un'accettazione o un diniego della malattia stessa.
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