Recensione factotum
Recensione a cura di GiorgioVillosio
Il "Male di vivere" ha diverse manifestazioni, nel comportamento come nell'espressione artistica. I latini parlavano di "Cupio dissolvi", mentre oggi si argomenta di tendenze autodistruttive, a livello artistico-letterario come in campo psicanalitico e psichiatrico. La linea di demarcazione tra la dimensione semplicemente nevrotica e quella psicotica non è sempre netta (ma di quest'ultima non si tratta in questa sede). Dell'altra, invece, è logico parlare, come madre di melanconie, depressioni e spleen, manifestazioni consuete di disagio e noia esistenziale.
"Sta sotto l'ala del corvo" dicevano gli antichi ebrei per definire l'umore nero del depresso; e cioè nel posto più buio e disperato dove potrebbe essere, senza possibilità, né volontà di uscirne.
Anche se un certo tasso di malinconia è dotazione imprescindibile dell'individuo intelligente, per la coscienza stessa della sua mortalità, e della difficoltà di vivere. La quale sensibilità, poi, varia anche in funzione degli anni, quando il ragazzo, uscito dall'infanzia, approda alla "età del malessere", l'adolescenza; dove proprio il senso intimo di inadeguatezza, e l'urgenza di vivere da adulto senza possederne gli strumenti, rendono penosissima una stagione della vita cui i vecchi tornano sovente con nostalgia... (per difetto di memoria!!). Crescendo, l'età adulta dovrebbe corroborare il carattere e infondere una consapevole fiducia e maggiori ottimismi. Ma non è sempre così. Motivi esogeni ed endogeni stanno alla base di temperamenti malinconici, destinati a stati cronici di depressione o di umori altalenanti di segno bipolare. Molti ne soffrono a vita, mentre a pochi altri si schiudono le porte di una catarsi artistica, dove il disagio esistenziale può assumere toni assai diversi: da quelli scanzonati ed osceni di Henry Miller, a quelli "maledetti" di Majakovskij, dai modi violenti alla Hemingway a quelli onirico-psichedelici dei beat come Kerouac, per finire, entrando finalmente in tema, con la crudezza feroce e corrosiva di Bukowski.
Nel suo primo romanzo Factotum, questi si autoraccontava, dipingendo la sua vita border line di vagabondo, donnaiolo impenitente, giocatore ed alcoolista, con modi fortemente autoironici e sovente grotteschi; alla ricerca quasi maniacale della caduta individuale e della sconfitta. Unico miraggio e luce di speranza, la "soluzione artistica": il successo dei suoi scritti, che alla fine venne, dandogli un poco di tranquillità (proprio lui diceva: «chi ha detto che un poeta deve fare la fame? Riempitemi un bel piatto di fagioli... vedrete che poesie vi farò!»). Di questa scanzonatezza, ironica ma disperante, il film del norvegese Bent Hamer offre una valida testimonianza, in assoluta fedeltà; e sarebbe certamente piaciuto a Bukowski, che prima di morire aveva contestato la versione americana con Mickey Rourke. Evidentemente, proprio perché europeo, il regista ha eseguito una sceneggiatura "molto letteraria", asciutta e convincente, in bilico tra ironia e squallore come in tutte le opere dell'autore; senza calcare i toni sulla critica di fondo al perbenismo e al conformismo dell'altra società, la americana tipo, che lavora, programma, guadagna e consuma.
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