Recensione la nostra vita
Recensione a cura di Mimmot
E così, finalmente, fatte le debite differenze, l'Italia ha il suo Ken Loach, il suo cantore del nuovo proletariato urbano: il regista Daniele Luchetti.
Fatte le debite differenze, perchè i proletari di Luchetti, diversamente di quelli di Ken Loach, hanno perso la loro identità e si ritrovano ad inseguire miti e mode di un mondo che non gli appartiene e che mai gli apparterrà; ma anche a condividere con quel mondo la fascinazione per tutto ciò che è ostentazione e mancanza di senso etico e morale. Un mondo di squali (o di caimani) con luci (poche) e ombre (molte).
Con "La nostra vita", Luchetti ha fatto il ritratto dolce-amaro di un'Italia che se ne frega delle regole, e del suo sottoproletariato urbano che vive di marginalità e sogna le contraddizioni del nostro tempo. Il ritratto di un'Italia delle scorciatoie e dei piccoli e grandi affari sporchi, che si consumano quotidianamente nell'indifferenza più assoluta; e di quegli italiani che vivono di ristrettezze e sognano il mondo che le tv (commerciali e non) dei reality show e delle soap opera gli propongono, fatto di tronisti e di veline facili, di pupe e di secchioni.
Un ritratto del paese dell'illegalità generalizzata e di noi italiani che la tolleriamo, la scusiamo e la condividiamo, di noi che identifichiamo la corsa alla ricchezza come l'unico modello esistenziale possibile, che viviamo la precarietà del lavoro e votiamo chi su quella precarietà fa la sua fortuna, promettendo miracoli e insegnando stili di vita in cui è meglio apparire che essere, che ci fa credere che gli unici obiettivi di vita sono il benessere, i soldi, le feste, le vacanze, le donne (meglio se a pagamento).
È l'Italia dei soldi che si pensano facili, dei quartieri dormitorio e dei palazzoni anonimi, dove tutto è lontano, dove restano solo gli oggetti a fare la differenza, lo status da sfoggiare: il televisore al plasma, la playstation, l'iPod, i vestiti di marca.
È l'Italia di chi non sa più indignarsi anche se non ce la fa ad arrivare a fine mese; l'Italia del grande illusionista che ha rubato trucchi, mestiere e scena ai vecchi maghi televisivi e, anche se non piega più i cucchiai, fa veri miracoli: ipnotizza milioni di persone, risolve le crisi con la forza del pensiero, appare giovane anche se è decrepito.
È l'Italia di Claudio, l'operaio trentenne che lavora nel campo dell'edilizia nella periferia romana.
Sui ponteggi di uno dei tanti palazzi in costruzione, Claudio coordina il lavoro di altri operai (in maggioranza extracomunitari che nel loro paese facevano i pediatri, e qui ci costruiscono le case), urla ordini e impartisce disposizioni. Nel privato è un uomo felice, anche se vive ai margini della vita sociale e della vita culturale. Sposato con Elena, è padre di due bambini piccoli e in attesa del terzo che deve nascere a breve. Non ha grosse risorse economiche, ma ha una moglie giovane e bella, che ama molto e da cui è riamato.
Lui ed Elena hanno una vita sessuale appagante, comprano i mobili da Ikea, amano Vasco Rossi e sognano la vacanza dei vip in Costa Smeralda. Una sopravvivenza serena che all'improvviso si spezza nella fatalità di una tragedia.
Prima muore un operaio irregolare, precipitando nella tromba dell'ascensore, il cui corpo verrà seppellito di nascosto; poi la tragedia più grossa: Elena se ne va dando alla luce il loro terzo figlio.
E per Claudio la vita diventa un inferno, una vita che gli sfugge di mano ogni giorno di più.
[...]
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