Regia di
Kim Ki-Duk con Uhl Lee, Ji-min Kwak, Min-jung Seo
Recensione a cura di Stefano Santoli (voto: 8,0)
Il titolo "La Samaritana" è particolarmente improprio. Il titolo originale del film è "Samaria" (e così d'ora in poi lo chiameremo in questa sede): la Samaria è una regione dell'antica Palestina distinta dalla Giudea e dalla Galilea, socialmente emarginata rispetto a queste ultime. All'epoca del Nuovo Testamento i samaritani erano vittime di un pregiudizio che oggi non esiteremmo a definire razzista e xenofobo. Nel Vangelo di Giovanni, la donna samaritana incontrata da Cristo così gli si rivolge: "come mai tu che sei giudeo chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?"
La Samaria è la Corea, per Kim Ki Duk. Il regista aveva già descritto, in tutti i suoi film, il suo Paese come una regione sventurata, terra di stupro e di conquista. E la Corea lo è stata. Prima da parte dei cinesi, poi dei giapponesi, infine degli americani. Reietti, derelitti, emarginati, sono i protagonisti del primo cinema di Kim Ki-Duk, anteriore alla svolta costituita da "Primavera, estate, autunno, inverno ...e ancora primavera". Si veda, per tutti, il bellissimo "Address unknown" ("Indirizzo sconosciuto").
"Samaria" (2004) è stato presentato in concorso al Festival di Berlino nel 2004, dove ha vinto l'Orso d'Argento. Nella produzione di Kim, segue "Primavera, estate, ...", e vien subito prima di "Ferro 3" (anch'esso del 2004), ma in Italia "Samaria" è stato distribuito nell'estate del 2005, diversi mesi dopo "Ferro 3" (ha dovuto attendere il successo del film che lo precede, prima del quale nessun film di Kim era stato distribuito, nonché di quello immediatamente successivo. "Ferro 3" aveva vinto, nel 2004, il Gran Premio della Giuria al Festival di Venezia, e fu subito distribuito, sulla scia del successo ottenuto da "Primavera, estate, ...").
Avere chiara la collocazione temporale dell'opera è importante, perché il film – se in parte risente dell'evoluzione stilistica avviata dal suo predecessore – mantiene un'intima relazione con le opere ancora precedenti, di cui conserva forme e modi che il regista coreano abbandonerà solo in seguito, a partire da "Ferro 3". Tra queste forme, oltre alla violenza (non tenuta rigorosamente fuori campo come avverrà in seguito), c'è da registrare un tessuto dialogico pressoché convenzionale (che alle nostre orecchie appare a volte incongruo solo a causa dei difetti di traduzione e di doppiaggio). Solo a partire dal film successivo Kim deciderà di ridurre (o bandire completamente) i dialoghi tra i protagonisti (con tanta insistenza da rischiare la maniera).
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